Oggi, 3 maggio, si festeggia la libertà di stampa.
In Italia, grazie alla nostra Costituzione in teoria questo concetto è addirittura recepito come uno dei cardini della democrazia. Che rivoluzionari questi padri costituenti!
Il concetto di libertà di stampa non è però astratto o puramente ideale come a volte sembra ascoltando le solite chiacchiere da salotto: in realtà la libertà di stampa è una cosa concreta, una cosa “che si mangia” ma che però, spesso, non fa mangiare.
Cerco di spiegarmi meglio.
Per mesi certi loschi figuri che di democrazia non ne capiscono un tubo additavano la stampa italiana, agli ultimi posti nelle classifiche internazionali riguardo alla libertà, come serva e prona ai poteri forti.
In realtà per troppo tempo questa classifica è stata letta al contrario, visto che il motivo del posto così in basso era proprio il coraggio e la libertà di molti colleghi che a causa delle loro inchieste si sono ritrovati incriminati o peggio costretti a essere protetti da una scorta. Tanto che è bastata l’assoluzione dei colleghi Nuzzi e Fittipaldi per la vicenda Vatileaks e come per magia abbiamo riacquistato circa 20 posti.
La libertà di stampa si tocca, si mangia ogni qual volta un collega scrive di un fatto, lo analizza e non bada a chi potrebbe fare arrabbiare. La libertà di stampa diventa un concetto ideale se si permettono querele temerarie e richieste di risarcimento esagerate al solo scopo di intimidire il giornalista.
La libertà di stampa mantiene un senso quando chi scrive si informa, verifica e pubblica una notizia solo se ne è assolutamente sicuro; va a farsi benedire quando, anche se bravo giornalista, cede al fascino del click facile, dell’informazione parziale, della bufala.
La libertà di stampa diventa reale quando chi investe in pubblicità lo fa esclusivamente pensando alla visibilità e al prestigio del giornale e non alla sua linea editoriale; torna ad essere eterea quando la pubblicità viene promessa “solo se…”.
Capita allora che per mantenere fede alla libertà di stampa, ai propri principi e alla deontologia di una professione comunque nobile, risulti difficile mangiare con il proprio lavoro, perché non disposti a sottostare a quel “solo se…”.
E allora oggi dedico questo inutile post a tutti quei colleghi che hanno deciso di tirare la cinghia pur di continuare a camminare a testa alta, magari rimettendoci anche la vita: loro, e soltanto loro, sono l’orgoglio di un’intera categoria.