Non chiamatemi più “SDC”!

Uno spettro si aggira per i ristoranti e le trattorie di mezza Italia: quello dell’approssimazione!

Come molti di voi ormai sapranno, mi diletto a cucinare ma soprattutto a mangiare bene, in casa e fuori.

Ho avuto la fortuna di frequentare il corso Onav di assaggiatore di vini e, sebbene specifico per l’inebriante bevanda, proprio quel corso mi aiutò a stimolare strumenti di degustazione adattabili a più o meno ogni contesto, in particolare per l’individuazione di 4 dei 5 gusti fondamentali e cioè il dolce, il salato, l’amaro e l’acido. Il quinto, l’umami, come noto non è presente nel vino.

Il gioco degli equilibri, delle consistenze, dei contrasti: assaporare un piatto per me è quasi un momento religioso, che mi godo con attenzione e massimo piacere.

Quando mi ritrovo però in compagnia di amici e parenti, questa mia continua ricerca della perfezione e di analisi minuziosa delle pietanze provoca nei commensali due reazioni: la prima, ingiustificata, quasi di soggezione latente, come se il mio giudizio fosse chissà perché più importante di quello degli altri; la seconda è invece quella più gettonata, e cioè la classica presa in giro, seguita immediatamente da un simpatico – si fa per dire – nomignolo: “SDC“.

SDC è un acronimo di un modo di dire siciliano, “SticchioDiCulo” (lo scriviamo tutto attaccato per eludere la censura), il cui significato letterale non c’entra assolutamente niente con il senso che gli si vuole attribuire in questo contesto. Di fatto, significa “snob”, “precisino”, “puntiglioso” e anche, se volete “rompiballe”. Nel mio caso, poiché sono sempre il primo a notare errori nel servizio o nelle preparazioni, mi è stato coniato a furor di popolo, con grandi risate a corredo.

Eppure, se SDC significa pretendere la qualità e la professionalità minima in un locale degno di tal nome, allora lo rivendico con orgoglio.
Certo, so perfettamente che non esiste uno standard unico per ristoranti, trattorie o pizzerie, eppure su alcuni punti non si possono fare sconti. Mi riferisco ad esempio alla pulizia, alla gentilezza, alla correttezza dei comportamenti. Poi non pretendo certo una pasta con le sarde memorabile se la pago 6 euro in trattoria, ci mancherebbe! Ma in un ristorante che mi piazza a 28 euro uno spaghetto agli scampi, voglio che siano direttamente gli scampi a servirmi al tavolo grazie alla loro freschezza!

E allora cari amici, invece di scherzarci su, vi invito a diventare tutti un po’ più SDC: se cominciassimo tutti a far notare gli errori gravi ai ristoratori, forse la qualità del servizio in generale ne gioverebbe e l’immagine della cucina italiana, ancora in grande spolvero nonostante tutto, continuerebbe a restare un orgoglio per questo Paese.

Essere SDC però non significa MAI svilire il lavoro altrui: anche nel far notare un errore serve educazione e civiltà. Perché l’SDC alla fine fa ridere, il cafone al contrario è sempre e comunque soltanto fastidioso.

In foto: tipico esempio di piatto “sdc”

Che fine ha fatto la buona educazione?

Colgo spunto da qualche episodio spiacevole successo a persone a me molto care per tornare a scrivere in questo trasandato blog; argomento del giorno è la buona educazione o, meglio, la mancanza di buona educazione.

L’incipit “ai miei tempi”, abbastanza odiato e inflazionato, suona quasi ridicolo in bocca a un 36 enne che la guerra di certo non l’ha fatta; eppure, purtroppo, in soltanto una generazione, le cose sembrano davvero peggiorate.

Qualche giorno addietro una mia cara amica, incinta di 8 mesi e con un bel pancione chiaramente indicatore del suo status, ha chiesto ad un noto bar nel centro storico di Siracusa, città eletta ormai da tutti i portali del mondo una delle mete turistiche più ambite, di poter usare il bagno. La prima risposta del signore presente (non sappiamo se il titolare o un suo dipendente) è stata già molto indicativa: “prima deve consumare!”. Alle proteste della prossima puerpera, il soggetto in questione ha inizialmente acconsentito all’uso del famigerato bagno.

All’uscita dai servizi però, la mia amica si è sentita apostrofare con una perentoria richiesta di 50 centesimi da pagare; “ma nessuno in città ha fatto mai pagare l’uso del bagno, specialmente ad una donna incinta!” ha spiegato la giovane futura mamma; “non è vero – ha risposto sempre il soggetto in questione – il bar……… (e nomina un famoso bar nelle vicinanze) – lo fa pagare.” “La devo smentire – lo gelò infine la mia amica – sono stata lì qualche giorno fa e sono stati invece gentilissimi”. Qui, a questo punto, arriva il tocco di grazia, la finezza che ci inorgoglisce in quanto discendenti di Archimede, eredi di Corinto, cultori della bellezza e dell’eleganza: “E allora si ni issi all’autru bar!” (Traduzione dal siciliano: e allora se ne torni pure nel bar dove non pagava!”).

Il gesto, inqualificabile, ha una difficile spiegazione, se non nell’assoluta mancanza di buona educazione da parte di questo “signore” (usiamo le virgolette), alla quale va aggiunta l’assenza di umanità, buon senso, sensibilità, correttezza. Il problema – torno a specificarlo – non riguarda nemmeno la richiesta dei 50 centesimi che si sarebbero potuti chiedere in ben altro modo, ma il tono da cafone maleducato che di fatto mette una croce sopra alla frequentazione di quel bar da parte di un bel gruppetto di persone, capeggiato da un non modesto consumatore come il sottoscritto.

Ma non è tutto.

In città – ma credo un po’ ovunque in Italia, anche se ovviamente non ne ho contezza diretta – è in atto una sorta di diffusione di un sentimento di cattiveria gratuita che sembra addirittura piacere più della buona educazione.

Da non confondere con il pessimo buonismo – che invece diventa una filosofia che tutto giustifica, anche comportamenti inqualificabili – la buona educazione è ad esempio quella di cedere il posto sui mezzi o in sala d’attesa ad anziani, donne incinte, persone con difficoltà deambulatorie; aiutare giovani donne o anziani a trasportare la spesa, casse d’acqua, pesi ingombranti; salutare con un sorriso e un buongiorno i vicini, intavolare una breve discussione in ascensore, dire “grazie”, “prego”, “mi scusi”, “si figuri”, “di niente”, “permesso”, “per favore”, oppure perché no, dare un bacio a vostra moglie/marito/compagno/mamma/papà/nonno/nonna senza un motivo apparente, solo per dimostrare un po’ di affetto.

E invece, siamo sempre incazzati. E non tolleriamo più niente e nessuno. Una donna entra in un noto negozio in carrozzina e una persona esclama: “già siamo stretti, ci mancava pure quella con la sedia!”. Aberrante.

Se una donna incinta salta una coda, al supermercato come ad un pubblico ufficio, nel rispetto della legge, sono più gli sguardi di odio che quelli di gioia per il pargolo in arrivo. Terrificante.

Se una persona con difficoltà motoria nell’attraversare la strada perde un attimo più di tempo, gli suoniamo irritati. Vergognoso.

E in questo contesto non voglio nemmeno toccare l’argomento della buone educazione online, un universo che puzza come una cloaca, pieno di leoni da tastiera che, di fronte allo sputtanamento dal vivo, poi diventano pecorelle.

Io lo so perché siamo incazzati: i soldi, i pagamenti, le tasse ecc. Ma quando pensiamo a cosa possiamo fare per migliorare il mondo, non immaginiamoci come statisti che governano i popoli; pensiamo ad essere più gentili prima di tutto con chi ci sta attorno e poi anche con gli estranei. Sono convinto – ma qui si entra forse nell’utopia – che una grande cambiamento può iniziare soltanto dopo un gesto di gentilezza.

A proposito: grazie per avermi dedicato qualche minuto del vostro tempo!